Sabino nel Centro di Accoglienza di via Mambretti

 

Milano, Centro di Accoglienza di via Mambretti. Stanza 12, penultimo letto. E’ dove Sabino ha dormito per quasi un anno. Oggi non vive più qui, ma ci lavora come addetto alle pulizie. Capita, però, che su quel letto vada a sedersi ancora, e allora i ricordi vengono a fargli compagnia. “La 12 è stata una stanza fortunata”, racconta. “Tutti i compagni con cui l’ho condivisa hanno cambiato vita e se ne sono andati, proprio come me”.

In Mambretti Sabino arriva che ha già 48 anni e sulle spalle un bagaglio pesante di rimorsi. Quattro anni prima ha lasciato moglie e figlie per una nuova compagna, e dalla Puglia si è trasferito a Milano. “Io facevo il decoratore, lei la parrucchiera”. 
Poi, l’incidente che stravolge tutto: la donna perde la vita investita da un’auto, e Sabino viene sostituito senza preavviso nel cantiere dove lavora. Inizia l’incubo: un altro posto non si trova, né a Milano né in Puglia.

"Ho portato centinaia di curriculum a mano, uscivo la mattina alle 7,30 e rientravo alle 8 di sera. A fine giornata avevo i piedi massacrati".
Senza lavoro, senza una casa, le porte di parenti e amici chiuse in faccia dopo la separazione, Sabino finisce a vivere sulla strada.

Dormivo seduto sulle panchine della Stazione Centrale di Milano, il biglietto del treno sempre pronto in tasca per superare i controlli. Alle cinque del mattino ero già in piedi, solo e senza nessuno ad aspettarmi.

Così per due mesi, fino al giorno in cui un amico del padre lo riconosce in strada e decide di farlo uscire da lì. Vanno insieme al Centro Aiuto della Stazione Centrale, dove Sabino riceve la buona notizia che si è liberato un posto letto nel Centro di via Mambretti.

E’ la svolta. “Da quando sono arrivato qui, le cose hanno preso a girare per il verso giusto”.
Incontra dei compagni che lo ascoltano senza giudicarlo per gli errori che ha commesso, e un po’ alla volta riacquista fiducia in se stesso. Nel frattempo si distingue per le sue capacità manuali, tanto che Progetto Arca lo chiama a collaborare alla ristrutturazione dei locali, che oggi ospitano il reparto di Post Acute per i malati senza dimora.
"In 17 giorni ho finito tutto: preparazione dei muri, pitture, stuccature. “Sei il numero uno” mi hanno detto alla fine!"

Ma un’altra è la soddisfazione più grande: poter spedire il primo stipendio alla famiglia, dopo tanto tempo. “E’ questo che fa un papà”, e gli si legge nei grandi occhi neri il rimorso per quelle figlie, che non ha visto crescere.

Prima di salutarmi, allunga il cellulare e mi mostra orgoglioso una foto, che ha pubblicato sul suo profilo Facebook.
E' un primo piano di due giovani donne, con un messaggio: “Questo 2016 è iniziato bene, oggi vengono a trovarmi le mie figlie”.

Qualcosa ci dice che, presto, torneranno a camminare insieme.

 

 

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