Daniela, psicologa al servizio delle relazioni. “Il mio lavoro è stare tra le persone”

Anni di docenza in Università, poi la scelta di lavorare con Progetto Arca, in un Centro di accoglienza per richiedenti asilo. "Sono psicologa, una psicologa da strada".

Perché questa definizione?

In realtà questo appellativo mi è stato attribuito, in modo scherzoso, da una collega e amica. E’ una definizione che mi piace molto perché corrisponde al mio modo di vedere il lavoro dello psicologo che opera per il sociale.
Per molti anni ho fatto ricerca, progettazione ed esperienza in Università e in ambienti molto strutturati. Poi i grandi mutamenti sociali mi hanno fatto maturare il bisogno di conoscere la realtà da vicino, di ‘sporcarmi le mani’, stando in mezzo alle persone fuori dagli schemi e dall’impostazione classica del colloquio in studio.

Qui, in Progetto Arca, ho potuto sperimentare questo modello di psicologa e lavorare molto sui rapporti informali, in un’ottica di conoscenza prima dell’azione. Non va dimenticato che per molti profughi il lavoro dello psicologo è sconosciuto o immaginato come il dottore dei “pazzi”.
Nel primo incontro con loro spiego che mi occupo che stiano bene dentro il Centro. Inoltre, vado io a cercarli se non si presentano al colloquio, se segnalati o se li vedo in difficoltà. Il più delle volte si meravigliano di costatare che qualcuno si preoccupi del loro benessere.

 

I ragazzi che incontri hanno storie molto dolorose alle spalle. Quali sono i principali traumi con cui ti confronti?

Incontro traumi subìti prima e durante il viaggio migratorio. Molti profughi hanno subìto violenze, abusi di ogni tipo, lutti, abbandoni, ferite fisiche e/o psicologiche, persecuzioni religiose o sessuali, povertà. Quando arrivano, sono stremati e hanno solo bisogno di riprendersi, in un luogo in cui possano sentirsi protetti per ricaricarsi. Chi ha forti traumi chiede aiuto per poter dormire senza avere la mente che riporti alla memoria gli eventi critici di sofferenza.
E poi c’è lo sradicamento dal Paese e dalla cultura di appartenenza, la separazione forzata dagli affetti e dalla famiglia d’origine. Molti di loro non hanno un disegno progettuale chiaro e i lunghi tempi di attesa delle Commissioni fanno sì che si abituino al nulla, all’inattività. Sono ragazzi che vivono con grande frustrazione l’incertezza verso il proprio futuro e che vanno sostenuti nel riprendersi in mano la loro progettualità di vita.

 

Qual è la cura fondamentale?

La cura fondamentale è l’ascolto, che qualcuno li veda come persone. Solo il fatto di dire “Io sono qui per te” è tantissimo per loro.
Ogni persona, comunque, anche nell’estremo disagio in cui si può trovare, ha le proprie risorse, i propri fattori di ricarica, ed è un mio obiettivo cercare di rintracciarli, riconoscerli e valorizzarli.
Ho la fortuna di essere in un efficiente gruppo di lavoro che sa collaborare e dove il confronto è costante. La mia presenza avrebbe ben poca utilità se mancasse un buon coordinamento e la collaborazione di tutta l’equipe.

 

La lingua non rappresenta un ostacolo per la terapia?

La lingua di origine dell’ospite è fondamentale per un ascolto corretto delle problematiche psicologiche, come pure la conoscenza della cultura specifica del suo Paese di origine. La presenza nel Centro di mediatori linguistici e di operatori di diverse etnie è sicuramente di grande aiuto. Soprattutto per il primo colloquio e per i ragazzi con grandi fragilità e scarse risorse perché, ad esempio, non scolarizzati, diventa fondamentale un interprete che parli la stessa lingua, al fine di riconoscersi e di “affidarsi”.
Ma nella dinamica del colloquio, anche il linguaggio non verbale, del corpo ed emotivo, ha un ruolo determinante. Molto viene trasmesso con la voce, la postura del corpo e l’espressione del viso. Un sorriso, una lacrima, un’espressione di paura, valgono più di cento parole.

 

Un indicatore che ti fa pensare di aver fatto un buon lavoro…

Spesso i ragazzi che sono in attesa di risposta rispetto alla loro richiesta di asilo politico interpretano il mio intervento come utile per ottenere un documento oppure lo temono con l’idea di essere considerati pazzi. Se durante il colloquio cambiano opinione e riescono a raccontare qualcosa di sé in modo autentico, se riescono a piangere, a confidarsi, a far emergere la loro sofferenza, se riesco a trovare insieme a loro qualcosa che possa dare un sollievo, allora penso che il mio intervento sia riuscito.
Non parlo di un intervento definitivo, ma di una piccola ricarica che permetta loro di essere riconosciuti come persone nelle fragilità, ma anche nelle risorse.

Un dato significativo è che gli ospiti tra loro non parlano dei traumi che hanno vissuto, per non appesantirsi di più. Quindi non hanno molte possibilità di sfogarsi. A questo si aggiunge il fatto che nei contatti con i parenti devono mostrarsi forti e senza problemi, per non preoccuparli. Così il carico emotivo che sopportano risulta spesso molto pressante.
Alla fine del primo colloquio domando: “Posso fare qualcosa per te?”. Spesso la risposta è semplicemente “Grazie”.

 

 

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